Vanitas & stranezze dal mondo, in arrivo la mostra in Italia

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Farsi attraversare dallo stupore dell’esistenza, ovvero Vanitas & stranezze dal mondo (una danza macabra fra ironia, glamour, gotico e kitsch), un’idea di Loris Zanrei, gallerista ed editore dei magazine Arting News e Diciotto. Il progetto è quello di raccogliere oggetti e opere d’arte provenienti dalle collezioni private di tutto il mondo e presentarle al grande pubblico in una grande mostra espositiva italiana. Zanrei, già curatore del museo delle stranezze da vita ad un’iniziativa dallo style decisamente internazionale.
Cosa sono oggi le Vanitas, forse un tema macabro, polveroso, spettrale? Neanche per sogno, visto che per l’argentiere toscano il “memento mori” diventa motivo per celebrare la vita, per cantare gli anni felici e spensierati proprio attraverso la metafora artistica e naturale della morte.

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Così il ghigno del teschio diventa un sorriso ironico e le ombre diventano luce. Un teschio riletto in chiave Pop, in chiave Rock, all’insegna del glamour neogotico contemporaneo. Ecco collane fatte di serpi, orecchini scheletrici, sedie con gli scorpioni, mini-vanitas composite, specchi allegorici, vassoi ricchi di scarafaggi e candelabri coi pipistrelli. Simboli dell’eternità come le tartarughe, i vermi e le conchiglie accostati a sentinelle dell’effimero quali i fiori secchi, le ragnatele o le farfalle.
Si porgerà  ai visitatori della mostra un bouquet di ispirazioni che partono da elementi simbolici, scaramantici, e surreali per giungere puntuali a quello che è il piatto forte di Loris Zanrei: le sculture in cera, in pietra, corallo, legno o plastica.

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Loris Zanrei curatore della mostra, con Vittorio Sgarbi

La mostra sarà  corredata da un catalogo omonimo, arricchito dal testo introduttivo di critici e ospiti dal mondo dell’arte, sarà allestita con la collaborazione di scenografi e designer.
Per le creazioni Loris Zanrei,  metterà in scena una vera scenografia teatrale ricca di atmosfere dark, velluti porpora e luci soffuse: per l’allestimento il curatore si è ispirato alla narrativa inglese di epoca romantica, ove il soprannaturale e il tenebroso si trasformavano in narrazioni affascinanti. Saranno presenti opere contemporanee e antiche, in arrivo da privati e musei, con la collaborazione ed il patrocinio di Arting News Magazine e diciotto magazine.

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Tutti i privati, collezionisti, addetti ai lavori, in possesso di opere macabre, stranezze, vanitas, curiosità, possono mettersi in contatto con la nostra redazione al fine di proporre opere da esporre nella suggestiva mostra.

museodellestranezze.com

News dal museo

Totentanz è una ballata medioevale che perfettamente si addice allo stile di Dino Battaglia, appena 8 tavole in cui Battaglia recupera fedelmente il concetto di Totentanz (Danza della morte o Danza Macabra), diffuso nella pittura medioevale, per accompagnarci in una favola nera.
Col nome di Totentanz si è soliti designare le raffigurazioni della morte che danza con le anime degli uomini trasportandole verso il suo regno, la morte che non fa alcuna distinzione fra razza, sesso, ceto e religione quando si tratta di accompagnare le anime nel loro ultimo viaggio. Ma Totentanz può essere anche una ballata medioevale, una filastrocca che gioca sul tema della morte e sulla vanità delle ambizioni umane.
In particolare Battaglia si ispira ad un celebre affresco raffigurante una Danza Macabra, ovvero quello presente nella chiesa di San Vigilio, presso Pinzolo, dipinto dal pittore cinquecentesco Simone Baschenis de Averara nel 1539. Questo affresco raffigura tre scheletri che suonano strumenti (uno dei tre rappresenta la Morte con trono e corona), un Cristo in croce ed a seguire un corteo costituito da diciotto coppie intente a danzare, ogni coppia formata da un personaggio vivo e da un morto che lo accompanga nel ballo (e fra queste non mancano ecclesiastici come papi, vescovi e cardinali). L’affresco in questione è famoso anche perché sotto le immagini riporta un poema/filastrocca dedicato alla morte ed in tema con le immagini raffigurate (“Io sont la morte che porto corona/Sonte signora de ognia persona…”). Questo poema viene riutilizzato da Battaglia per scandire l’inesorabile destino che accompagna lo sprovveduto protagonista della storia. Ed in questo modo il fumetto di Battaglia è più volte fedele al titolo che utilizza.

In Totentanz siamo immediatamente trasportati nel vivo della vicenda e troviamo Peter, un pittore di chiese al servizio dell’avaro maestro Annekeen, intento a cercare di derubare il proprio padrone. Colto sul fatto, Peter non esita ad uccidere il suo avaro datore di lavoro e sbarazzarsi del corpo, fantasticando sul suo oro e la sua donna, Marion. Ma le cose non andranno secondo i piani, la moglie non sarà interessata a scappare con lui e la figura dell’avaro tornerà a terrorizzare le sue giornate predicendogli l’impossibilità di godere del denaro e la sua imminente morte.

Come è naturale il crudele pittore non potrà fare altro che unirsi con l’avaro e tante altre povere anime in una tragica danza nell’ultima straordinaria vignetta del fumetto.
Come sempre impeccabile nella realizzazione grafica, questa cupa e nerissma favola morale riesce a ricreare alla perfezione l’impressione lasciata dalle tante raffigurazioni di danze macabre ed a confermare il talento gotico di Battaglia.
Pubblicata la prima volta su linus n. 61 dell’aprile 1970 è stata successivamente riproposta più volte in rivista ed in volume. La prima apparizione in volume si ha in un albo che prende il nome dal racconto, Totentanz edito da Milano Libri nel 1972. Nell’aprile 1984 la storia appare in una versione colorata dalla moglie Laura Battaglia sulla rivista alteralter (anno 11 n. 4). Più di recente il fumetto è stato riproposto nel volume antologico di opere di Dino Battaglia Racconti 2, 12mo volume della collana Le Onde a cura delle Edizioni Di.
Nel 1993 il personaggio di Dylan Dog sarà protagonista di una storia omonima ideata da Sclavi e Marcheselli e disegnata da Giampiero Casertano.

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L’antico tema della Vanitas, reinterpretato dall’obiettivo di Drik Dickinson

Originaria di Venezia e di base in Irlanda, con una specializzazione in botanica conseguita all’Università di Galway, l’artista Drik Dickinson svela a Verona dieci suoi nuovi lavori. Continuando a misurarsi con il tema della Vanitas.

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Unificati dall’essere stati immortali in studio, i soggetti della nuova serie di fotografie che l’artista Drik Dickinson sta presentando negli spazi di Studio la Città, a Verona, si relazionano tutti con la multiforme dimensione dell’acqua.
Veneziana di nascita ma irlandese d’adozione, in occasione della mostra Inside Dickinson espone infatti dieci lavori in cui continua a relazionarsi con il tema della Vanitas, proseguendo con l’itinerario cui la sua intera opera è intimamente legata.

Come lascia intendere anche dal titolo di questa nuova personale, nella serie esposta l’acqua prende le distanze dalle composizioni casuali, legate alla fotografia all’aperto, nelle quali incidono elementi come il tempo, la corrente e la luce.
L’elemento acquatico, presenza imprescindibile sia visivamente sia allegoricamente nel linguaggio di Drik Dickinson, appare così “costretto all’interno di secchi, recipienti avvolti da strati di plastica e dove, a volte, l’elemento floreale è invece finto, sia esso nel pieno della sua fioritura o nella fragilità del suo avvizzimento.”
A riguardo, la stessa artista ha sottolineato come “l’acqua, visione e allegoria, è il tema che mi domina. La trasparenza mi porta al fondo oltre lo specchio, il fondo mi riporta alle domande della superficie. Continuare e fermare: a volte ho l’impressione che il mio lavoro sia una testimonianza privata, da confessare a nessuno, sulla caducità della vita come la sento, come si presenta ai miei occhi, materialmente.”
[Immagine in apertura: Drik Dickinson, Inside 62#, 2016, Ed. 1/5. Immagine nell’articolo: Drik Dickinson, Inside 41#, 2017, Ed. 1/5

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Vanitas, un tema antico nell’opera di Maldague

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Il teschio umano è uno dei grandi soggetti dell’arte europea dal XVI al XVII secolo. Utilizzato nella natura morta olandese e tedesca come Memento mori, ma anche come oggetto di meditazione (nelle rappresentazioni di Maria Maddalena) e simbolo di riflessione (nei filosofi), è anche una forma affascinante di enorme complessità plastica. Un tema esplorato dai maestri del Novecento, che Nicolas Maldague, uno dei più importanti incisori francesi contemporanei, affronta con tecnica sontuosa e sguardo moderno. L’artista normanno presenta alla galleria Bellinzona di Milano 60 opere recenti sul tema della Vanitas, in dialogo con quelle di Picasso, Baselitz, Morlotti, Rouault, Francese e altri grandi del secolo scorso. I lavori sono allestiti nella mostra curata da Michele Tavola fino al 12 gennaio 2013. (Nell’immagine: Memento mori, 2010

Antonio de Pereda, Allegoria della caducità, 1640

L’espressione latina “vanitas vanitatum”, “vanità delle vanità”, tratta dalla Bibbia (Ecclesiaste, 1), deriva da “vanus”, letteralmente “vuoto”, “caduco” e, in ambito pittorico, ricorre nell’accezione di natura morta caratterizzata dalla presenza di oggetti o indicatori simbolici che alludono alla precarietà dell’esistenza, all’inesorabilità del trascorrere del tempo, alla natura effimera dei beni mondani. Si tratta di un’iconografia che all’inizio ha finalità moraleggianti – invita ad abbandonare i piaceri e i desideri venali per occuparsi della salvezza eterna – e che successivamente, durante il Seicentobarocco, assumerà caratteristiche ambigue, volte sì a cantare la caducità della vita – quale che sia -, ma al tempo stesso, considerata la sua natura fragile, di cogliere il giorno, prima che sopravvenga l’eternità.

L’origine della diffusione della vanitas (vanitates, quando si usa il sostantivo latino al plurale) nella sua accezione moraleggiante – o, se vogliamo considerare, il suo ritorno, giacché essa riprende in chiave nuova l’orrore per la materia che si sviluppò in ambito spirituale durante il Medioevo – deve essere inquadrata nell’ambito dell’Europa cinquecentesca, tormentata da annosi conflitti bellici (la Guerra dei Trent’anni), da epidemie, dalla crisi economica seguita alla scoperta dell’America e, soprattutto, dallo scisma religioso e dal turbamento cagionato dalla riforma protestante. Già nel tardo Medioevo, la Chiesa aveva elevato un severo monito, ricordando come le ricchezze accumulate “sub specie aeternitatis” non avessero alcun valore (fossero vane, appunto) e, anzi, conducessero alla dannazione. Al fine di persuadere i peccatori alla redenzione, gli ecclesiastici avevano sollecitato la rappresentazione pittorica di merci di lusso – principalmente prelibatezze culinarie -, accompagnate da un teschio, allusione alla morte. Nel periodo che seguì alla guerra dei Trent’anni, il tema della vanitas fu affrontato in modo assiduo. Afflitto dalle carestie e dalle condizioni economiche disastrose che gravavano sull’intero continente, il popolo europeo percepì per la prima volta, in maniera tragica, la non coincidenza tra ideologia (le motivazioni religiose che avevano giustificato il conflitto) e realtà (il desiderio di bottino e di espansione territoriale). Nelle nature morte del tempo, il verdetto della vanità cadeva più spesso sulla ricchezza e sulle insegne del potere che non sui beni simboleggianti l’avidità della borghesia: corone – come la tiara e la mitra, ma anche corone regali -, un’armatura da cavaliere e il globo, emblema della smania di conquista, non mancavano mai. L’Allegoria della caducità di Antonio de Pereda (1608-1678), risalente al 1640, propone un’amareggiata riflessione sull’autorità imperiale.

Anche sui regni dei grandi sovrani l’orologio porta un mondo di polvere. Un angelo ammonitore mostra un cammeo che riproduce il volto del sovrano ispanico e imperatore tedesco Carlo V. Sotto il gioiello è significativamente rappresentato un globo, chiaro riferimento all’estensione del dominio asburgico sul quale “non tramontava mai il sole”. E’ già trascorso un secolo dalla morte dell’imperatore: come i teschi disposti sul bordo esterno della mensa e in balia del decadimento, così anche il regno non aveva potuto resistere a lungo. I riferimenti allo scorrere inevitabile del tempo sono tutti presenti: la candela spenta, la clessidra e l’orologio. Così come non mancano i segni della guerra e della ricchezza: una corazza, dei fucili, monete e monili. L’iscrizione Nil omne – tarda contrazione di “nihil omne”, “tutto è niente” -, incisa sul tavolo a fianco della clessidra, suggella il messaggio dell’artista, che dipinse il quadro nella Spagna di Filippo IV, avviata alla rovina economica e alla perdita della sua posizione egemonica dopo la disastrosa guerra con l’Olanda e la conquista dell’indipendenza da parte di Portogallo e Catalogna. Gli indizi di un calo di legittimità delle classi dominanti assumono un valore centrale nel Sogno del cavaliere, eseguito ancora da Pereda.

Un nobiluomo dall’incarnato cereo si è appisolato su una sedia. Il contenuto del suo sogno appare a destra, avvolto nell’oscurità della stanza. Sul tavolo, coperti dalla polvere (che richiama la cenere, ossia la fine di ogni vita umana), i tipici simboli della vanitas: le insegne signorili (corone e tiara), i frammenti di una corazza, un mappamondo, una candela consumata, l’orologio, gli immancabili teschi – uno dei quali è mostrato da una diversa angolazione, così che vi si possa guardare dentro -, gioielli, armi e denari. Futili sono considerati anche libri, spartiti, fiori freschi e una maschera (emblema di Thalia, ovvero del teatro), segni della fugacità dei piaceri. Il tema della vanitas è poi ribadito dalla frase scritta sul cartiglio dispiegato dall’angelo: Aeterne pungit, cito volat et occidit, “Punge per l’eternità, vola veloce ed abbatte ogni cosa”. Contemporaneo di Pereda, il fiammingo Pieter Boel (1622-1674), nato ad Anversa ma attivo a Parigi, è ricordato come il “chef-d’oeuvre du genre” delle nature morte. Lo scenario della Grande natura morta sulla vanità è quello di un dissestato edificio antico (presumibilmente una chiesa), entro i cui locali trova posto un sarcofago, attorniato dagli oggetti-simbolo della vanitas, a cominciare dalla mitra, dalle corone regali e dal globo. In primo piano un piatto dorato, sul quale sono raffigurate, a sbalzo, vicende mitologiche, assolve alla funzione di introdurre e separare spazialmente le insegne del potere temporale e spirituale, raffigurate sopra il sarcofago, e vanitates di rango inferiore, sparpagliate per terra. Così, su una balaustra sono disposti un teschio, un mantello d’ermellino ed un turbante impreziosito da un diadema, mentre sul pavimento si distinguono vari strumenti musicali, un’armatura, una sciabola, delle frecce, una tavolozza, libri e piume. E’ un’opera barocca, dunque non deve suscitare stupore lo sfoggio di sfarzo e opulenza in mezzo al decadimento e al presagio di morte.

Guido Cagnacci, Allegoria della Vanitas e della Penitenza. Il dipinto possiede tutti gli elementi caratteristici delle Vanitas. Da una parte i fragili vegetali, simbolo della transitorietà della giovinezza, dall’altra la candela spenta e il teschio, che indicano l’ineluttabile discesa verso la morte

L’intensità dello sguardo sospeso tra sogno e realtà, esiliato e racchiuso in una dimensione interiore che si dipana attraverso i percorsi della mente, il viso teso in un’espressione di altera superficialità, la torsione del collo, il morbido incarnato roseo, fresco e giovane, che spicca con la forza della sua luminosità su uno sfondo scuro; la levità delle dita della mano destra che sfiorano, più che stringere, lo stelo dei fiori. E il teschio, terribile, e la candela morta. E’ attraverso questi elementi che Guido Cagnacci (1601-1663), nella sua Allegoria della Vanitas e della Penitenza, riesce a rappresentare la caducità della bellezza, condannata a sfiorire nel tempo, e l’inevitabile destino a cui tutti gli uomini, prima o dopo, sono chiamati a rendere conto. Ricordiamo che

Guido Cagnacci, Allegoria della Vanitas e della Penitenza. L’opera è esposta al Mar di Ravenna, fino al 22 giugno, nell’ambito della mostra La cura del bello. Musei, storie, paesaggi. Per Corrado Ricci. Il dipinto possiede tutti gli elementi caratteristici delle Vanitas. Da una parte i fragili vegetali, simbolo della transitorietà della giovinezza, dall’altra la candela spenta e il teschio, che indicano l’ineluttabile discesa verso la morte

L’intensità dello sguardo sospeso tra sogno e realtà, esiliato e racchiuso in una dimensione interiore che si dipana attraverso i percorsi della mente, il viso teso in un’espressione di altera superficialità, la torsione del collo, il morbido incarnato roseo, fresco e giovane, che spicca con la forza della sua luminosità su uno sfondo scuro; la levità delle dita della mano destra che sfiorano, più che stringere, lo stelo dei fiori. E il teschio, terribile, e la candela morta. E’ attraverso questi elementi che Guido Cagnacci (1601-1663), nella sua Allegoria della Vanitas e della Penitenza, riesce a rappresentare la caducità della bellezza, condannata a sfiorire nel tempo, e l’inevitabile destino a cui tutti gli uomini, prima o dopo, sono chiamati a rendere conto. Ricordiamo che il genere della Vanitas ha il suo massimo sviluppo proprio nel XVII secolo e che le figure caratteristiche sono il teschio, il lume senza fiamma, gli strumenti musicali silenziosi (la caducità), l’orologio e la clessidra (lo scorrere inarrestabile del tempo), le bolle di sapone, la flora appassita e la fauna marcescente (la transitorietà dei beni). Eloquenti, allora, divengono i simboli inseriti nell’opera, che deve essere letta da sinistra a destra, come sviluppo tra il presente e il futuro. Quindi, a sinistra: la rosa selvatica, dai petali evanescenti, graziosi a vedersi, ma fragili e pronti a cadere al minimo tocco, limpido riferimento ad una condizione di bellezza, schietta, intensa e transitoria, come la gioventù, concetto espresso con rafforzato vigore dalla presenza del soffione, che può essere disperso anche da un debole alito di vento. Così è la bellezza fisica. Perché mai, si chiede l’artista, cadere nella trappola della vanità, del narcisismo, per l’effimero premio della sensualità? A destra della figura sta l’orrido futuro. La candela spenta da poco- il pedicello ancora fumante – e il teschio invitano alla riflessione.
Ricordiamo che, in associazione, gli elementi simbolici della vanitas che risultano più diffusi nell’arte, sono il teschio, il lume senza fiamma, gli strumenti musicali silenziosi (la caducità), l’orologio e la clessidra (lo scorrere inarrestabile del tempo), le bolle di sapone, la flora appassita e la fauna marcescente (la transitorietà dei beni). Eloquenti, allora, divengono i simboli inseriti nell’opera, che deve essere letta da sinistra a destra, come sviluppo tra il presente e il futuro. Quindi, a sinistra: la rosa selvatica, dai petali evanescenti, graziosi a vedersi, ma fragili e pronti a cadere al minimo tocco, limpido riferimento ad una condizione di bellezza, schietta, intensa e transitoria, come la gioventù, concetto espresso con rafforzato vigore dalla presenza del soffione, che può essere disperso anche da un debole alito di vento. Così è la bellezza fisica. Perché mai, si chiede l’artista, cadere nella trappola della vanità, del narcisismo, per l’effimero premio della sensualità? A destra della figura sta l’orrido futuro. La candela spenta da poco- il pedicello ancora fumante – e il teschio invitano alla riflessione.

David Bailly, Autoritratto con simboli della vanità, 1651

Teschi, clessidre e bolle di sapone: l’iconografia del tempo fugace. Nell’Autoritratto con simboli della vanità di David Bailly (1584-1657), il confine di genere tra natura morta e ritrattistica appare più che mai labile: l’interpretazione della composizione scaturisce dall’indispensabile integrazione di entrambi. I riferimenti alla vanitas sono evidenti: sulla scrivania dell’artista trovano spazio un teschio, simbolo per eccellenza dell’ineluttabilità della morte, una candela spenta, delle monete, allegoria delle attività lucrose e mondane, una clessidra, un orologio da tasca, vari monili e delle rose; in primo piano un cartiglio, su cui si leggono la firma dell’autore e il motto Vanitas vanitatum et omnia vanitas (“Vanità delle vanità, tutto è vanità”). Nella stanza fluttuano bolle di sapone, segno, con la loro brevissima esistenza, della fragilità della condizione umana. A sinistra un ragazzo, che mostra con espressione austera il proprio autoritratto in età senile. Sorprende non poco che Bailly, allorché eseguì l’opera, nel 1651, avesse già sessantasette anni: il piccolo ritratto che il giovanotto ostenta è quello del pittore anziano e si configura come un documento di caducità. Dunque, l’artista raffigura se stesso in due età diverse: poco più che ventenne e quasi settantenne. Passato e presente compenetrano nella tela, si sovrappongono e sostituiscono, ritrattistica e natura morta si completano ed esplicano a vicenda: la prima (il quadro nel quadro) è parte integrante dell’insieme di oggetti posti sul tavolo; la seconda, invece, funge da illuminante attributo al giovane pittore. Finzione (il passato) e realtà (il presente) si confondono: ad un’osservazione superficiale sembra che il giovane Bailly anticipi la propria vita futura, la quale però, nel ritratto ivi tematizzato, appare già vissuta, mentre il ragazzo che nella realtà interna al dipinto sembra “vero” rappresenta una condizione transitoria.

Esiste una duplicità semantica della vanitas; da un lato troviamo dipinti con esortazioni dirette alla sfera privata, attraverso memento iconici che avvertono della necessità di limitare la vita sensuale perchè ogni cosa poi finisce e il cristiano si trova sguarnito, in azioni, pensieri opere – e con tante omissioni – davanti al giudizio eterno; dall’altra la pittura di vanitas ha la funzione di ricordare – in un’epoca di forte verticalizzazioni del potere – che ogni uomo, per quanto egli detenga una posizione preminente sotto il profilo sociale deve essere consapevole, come tutti gli altri fratelli,  che per tutti l’approdo è uguale.  Un contemperare cristiano – nel senso che la morte ci accomuna e che Cristo indica, attraverso la probità, una strada di condivisione fino alle soglie eterne – le divinizzazioni di ogni personaggio in vita.

 

Il potere, da sempre, ha cercato infatti di vivere come se ogni proprio esponente fosse eterno: e ogni azione di prevaricazione, truffa, malversazione, sopraffazione sembra alimentata inconsciamente dall’idea che tutto possa essere dominato e acquistato. Introdurre la consapevolezza del memento mori significava riportare i vertici alla base, invitandoli alla giustizia, alla fratellanza e alla condivisione.  Se in molti casi nella natura morta tout court il trascolorare del tempo è indicato attraverso fiori che appassiscono, frutti sui quali è evidente l’inizio del processo di putrefazione oppure attraverso l’irruzione, nella scena, di topi, serpenti, gatti, cervi volanti ecc, con quadri di bellezza nei quali solo l’occhio attento può rilevare gli indizi di caducità, in altre opere viene utilizzato direttamente il teschio o lo scheletro, messaggio di forte marcatura che rende inequivocabile il proprio contenuto.

Nel bel filmato assisteremo anche a quello che appare uno slittamento semantico: l’accostamento del teschio a belle donne – come in Guido Cagnacci – che sembra, ambiguamente, un invito a considerare la caducità della bellezza, a pensare all’eterno, ma soprattutto induce alla consumazione dell’attimo sensuale. Ciò accade anche in immagini fotografiche ottocentesche nelle quali il nudo e il teschio hanno il potere di far emergere il desiderio erotico nella sua urgenza.  Il termine vanitas, utilizzato in pittura per delineare un genere semantico, deriva dalla frase Vanitas vanitatum et omnia vanitas (“vanità delle vanità, tutto è vanità”) è una locuzione latina. La frase è tratta dalla versione latina del Qohelet (Ecclesiaste), un libro sapienziale della Bibbia ebraica e cristiana – in cui ricorre per due volte (Ecclesiaste 1, 2; 12, 8) -.

 

 

 

LO SPECCHIO NELL’ARTE – TRA VANITAS E PRUDENTIA

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LO SPECCHIO NELL’ARTE – TRA VANITAS E PRUDENTIA

Pochi oggetti racchiudono una così grande moltitudine di significati simbolici come lo specchio. Nel corso della storia esso è stato rappresentato come allegoria della vanità e della superbia; come simbolo di prudenza e di conoscenza oppure di inganno; come il luogo in cui si forma l’io e la coscienza di sé e contemporaneamente avviene lo sdoppiamento tra il soggetto reale e la sua immagine ideale o il suo doppio diabolico; come una porta di passaggio tra il mondo della realtà e un mondo immaginario.

L’utilizzo dello specchio nelle arti visive ha permesso la contrapposizione tra l’occhio e lo sguardo, tra il vedere e il comprendere, tra l’esteriorità e l’interiorità. Esso inoltre ha consentito di dilatare lo spazio svelando ciò che non si vede e non è presente nel campo figurativo rappresentato, ma diventa visibile allo spettatore solo tramite il riflesso dello specchio.

Vedremo adesso come nel corso della storia dell’arte, dal XV al XVII secolo, lo specchio ha trovato posto nelle rappresentazioni allegoriche della vanitas e della prudentia.


LO SPECCHIO E LA VANITAS

Hieronymus Bosch fu un pittore olandese del XV secolo il quale, mentre in Italia trionfava l’Umanesimo che celebrava il primato dell’intelletto, poneva piuttosto l’accento sugli aspetti trascendenti e irrazionali della vita. Egli seppe mettere in scena con una grande forza visionaria i conflitti dell’uomo rispetto alle regole imposte dalla morale e dalla religione, e quindi la follia, i vizi, i peccati e le punizioni infernali.

La sua opera più ambiziosa rimane il trittico de Il giardino delle delizie, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid. È un’opera di grande visionarietà e densa di rimandi simbolici, a tal punto complessa che storici e critici non concordano nel darne una lettura interpretativa.

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Lo sportello di sinistra raffigura Il paradiso terrestre, con la creazione di Adamo ed Eva, lo scomparto di centro è Il giardino delle delizie mentre lo sportello di destra è conosciuto come L’Inferno musicale. Quest’ultimo rappresenta con grande ricchezza e complessità di immaginazione i tormenti della dannazione ed è chiamato così a causa dei numerosi strumenti musicali raffigurati, che nel dipinto diventano strumenti di tortura, inflitta agli uomini da curiosi demoni, i grilli (i grùlloi dell’antichità classica, senza più la connotazione giocosa e scherzosa che avevano nella tradizione). In basso a destra di questo pannello raffigurante l’Inferno c’è una donna seduta, anzi abbandonata e priva di coscienza, con un rospo sul petto e ghermita da un demone con le zampe da salamandra che le è accanto. Essa si riflette (col demone) in uno specchio nero, fortemente convesso, legato sulle terga di un altro demone i cui piedi sono rami secchi (forse di nocciolo, albero legato nelle leggende tradizionali al demonio). Probabilmente questa collocazione dello specchio ricalca una tradizione popolare che in Francia recitava: Le miroir est le vray cul du Diable. Lo specchio è dunque un oggetto demoniaco.

Durante il ‘500 si discute molto sui poteri soprannaturali e malefici degli specchi magici, in grado di rivelare il futuro, di evocare i defunti o anche solo di porre in contatto delle persone lontane. Le credenze popolari attribuiscono allo specchio e alle superfici riflettenti in generale (come ad esempio l’acqua ferma), il potere di materializzare il passato e il futuro, eventi presenti ma lontani dal luogo in cui ci si trova, oggetti o esseri nascosti; lo specchio sarebbe insomma un occhio magico in grado di vedere ciò che è invisibile all’occhio umano.

Qualche elemento di queste credenze è sopravvissuto ai secoli, se molti anni dopo ritroviamo nelle fiabe popolari uno specchio magico parlante interrogato da regine vanitose e sanguinarie e per giunta streghe.

Per Bosch lo specchio è associato ai peccati di superbia o di vanità (che per il pittore sono la stessa cosa) e questi peccati sono altresì associati alla donna, che soccombe alla tentazione del maligno (alcuni hanno fatto notare in questo dipinto la somiglianza della donna peccatrice di superbia di fronte allo specchio nero con Eva, presente nel primo pannello del trittico, colei che con il suo peccato ha causato la collera di Dio e la cacciata dal paradiso terrestre).

Il tema della Vanitas, già presente nell’Antico Testamento (vanitas vantitatum, “vanità di vanità”), è rappresentato di frequente da donne colte nell’atto di guardarsi allo specchio per pura vanità.

Le stesse sirene, che incarnano una bellezza in grado di ammaliare e di portare alla morte, sono raffigurate con pettine e specchio, sebbene solo a partire dal II secolo quando, cioè, le loro sembianze divengono quelle di mostri metà donne e metà pesci invece che metà donne e metà uccelli.

L’interpretazione demoniaca dello specchio da parte di Bosch si riscontra in altre sue opere e in particolare ne I sette peccati capitali. Si tratta di una tavola costituita da sette riquadri che compongono il cerchio centrale (che altro non è che un occhio nella cui pupilla c’è l’immagine del Cristo) e da quattro tondi (i Novissimi), posizionati ai quattro angoli.

Lo specchio compare nel riquadro che raffigura il peccato di Superbia. È sostenuto da un demone filiforme e in esso si specchia compiaciuta una donna, peccatrice di vanità. Si noti che il demone indossa una cuffietta simile a quella della donna, con un effetto burlesco.

La Superbia (dal latino superbus= che sta sopra) è il primo dei vizi capitali, principio e radice di ogni vizio.

È un amore eccessivo di sé, un autocompiacimento malato che sfocia in una forma di idolatria del proprio io; come tale è rifiuto di Dio, in quanto nega il limite che caratterizza l’uomo. La superbia è la ribellione a questi limiti e la volontà di farsi Dio. Per Superbia, infatti, fu condannato il diavolo.

In uno dei quattro tondi posizionati agli angoli, l’Inferno, troviamo un altro demone che brandisce uno specchio di fronte a un’altra peccatrice, anch’essa con un rospo sul corpo e con accanto un peccatore seduto e perplesso, dannati entrambi per superbia.

La connotazione diabolica dello specchio non appartiene solo al mondo fiammingo. Ad esempio, i seguaci di Girolamo Savonarola, tra gli altri oggetti, infierirono anche contro gli specchi durante un rogo pubblico a Firenze (il Falò delle vanità), nella festa di martedì grasso del 7 febbraio 1497. Gli specchi erano ritenuti dai Piagnoni un oggetto maligno, simbolo della Superbia, assieme al pavone e al pipistrello.

In molte rappresentazioni, all’immagine dello specchio, simbolo di vanità, viene associata quella di una clessidra (tempus fugit), di un teschio (memento mori), di fiori ed altre cose effimere, come moniti che ricordano che la vita si conclude per tutti con la morte e la bellezza passa con il passare del tempo.

In quest’opera del pittore tedesco Hans Baldung Grien vediamo rappresentate tre donne, una anziana, una giovane e una bambina.

La seconda si sta rimirando in uno specchio convesso. A destra un cadavere in putrefazione tiene sospesa una clessidra, simbolo del tempo che scorre, sulla testa della giovane donna: metà della sabbia è già passata nell’ampolla inferiore, l’altra metà è in quella superiore in attesa di passare dall’altra parte. La bimba è avvolta dal velo trasparente che copre il pube della giovane, mentre la vecchia, dalla pelle grinzosa e dello stesso colore di quella del cadavere, irrompe nella scena poggiando la mano destra sul retro dello specchio, mentre con la sinistra tenta di allontanare il braccio della Morte che tiene sollevata la clessidra. La giovane invece, dalla pelle luminosa, sembra del tutto ignara di quanto le accade intorno e continua a rimirarsi nello specchio, legata al suo presente, alla sua gioia del momento. La morte vorrebbe insegnarle la sapienza del tempo, il tormento della sua inesorabilità, ma colpisce il gesto della vecchia che tenta di scostarla, quasi per salvare quel momento di letizia e di spensieratezza, per quanto effimera, della giovane donna, forse perché nella sua lunga vita ha imparato quanto grande è il rimpianto delle cose perdute e che quegli istanti di felicità non torneranno mai più. Il “duello” tra la morte e la vecchia appare come lo scontro tra due sapienze diverse, che fanno perno su due modi diversi di concepire il tempo: quello che nella morte vede una fine della vita terrena che rende vano e inconsistente ogni atto o momento che non sia teso a guadagnarsi la vita eterna, e quello che proprio nella fine terrena vede l’esortazione a vivere tutte le fasi della vita, per quanto effimere, ognuna nel suo momento appropriato.

Al pittore fiammingo Jan Van der Straet (detto Giovanni Stradano o Stradanus) appartiene invece questa opera dal titolo La Vanità, la Modestia, la Morte:

Nel Seicento, l’ascesa dei ceti medi e mercantili comportò l’emergere di un nuovo tipo di committenza artistica, non più appartenente esclusivamente agli ambienti della Corte o della Chiesa. Questo processo determinò lo sviluppo di generi pittorici da sempre stimati minori, quali il ritratto, la scena di genere e soprattutto la natura morta, che testimoniavano il rinnovato interesse scientifico per la realtà e per la sua minuziosa indagine descrittiva, seppure ancora sottomesso all’espressione di valori e messaggi morali e religiosi.

Il genere della natura morta prediligeva il tema iconografico della vanitas, soggetto che vide il suo apogeo proprio in questo secolo. La sua affermazione principalmente nei paesi dell’Europa centro-settentrionale (Olanda soprattutto) è da ricollegarsi al senso di precarietà che si diffuse in seguito alla guerra dei trent’anni e al dilagare delle epidemie di peste. Gli elementi caratteristici di tali composizioni sono l’immancabile teschio memento mori, la candela spenta e il silenzio degli strumenti musicali, come simboli di morte; la clessidra o l’orologio, moniti dell’inesorabile trascorrere del tempo; le bolle di sapone, simbolo della precarietà della vita e dei beni terreni; un fiore spezzato o un frutto bacato, emblemi della brevità della vita e del suo rapido sfiorire. Non è raro trovare tra queste composizioni anche uno specchio o una sfera riflettente, come nei due dipinti seguenti, appartenenti a pittori olandesi:

Pieter Claesz, Vanitas Still Life with Self-Portrait, 1628 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Pieter Claesz, Vanitas Still Life with Self-Portrait, 1628 – [Public domain], via Wikimedia Commons
Simon Luttichuys - Vanità con teschio (n°2) - 1645 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Simon Luttichuys – Vanità con teschio (n°2) – 1645 – [Public domain], via Wikimedia Commons

Olandese è anche Jan Miense Molenaer, autore di questa Allegoria della vanità, in cui la presenza del teschio, degli strumenti musicali e del mappamondo ricollegano l’opera all’apparato iconografico della vanitas tipica seicentesca.

Jan Miense Molenaer, Allegoria della vanità, 1633 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Jan Miense Molenaer, Allegoria della vanità, 1633 – [Public domain], via Wikimedia Commons

Al tema della vanitas si ricollega un’iconografia molto diffusa nella storia della pittura: quella della Maddalena. Esistono almeno tre interpretazioni di essa in cui compare lo specchio come spunto di meditazione sulla caducità delle cose terrene: la Conversione della Maddalena (o Marta e Maria Maddalena) di Caravaggio (1598), La Conversione della Maddalena di Artemisia Gentileschi (1615-16) e la Maddalena penitente (o Maddalena allo specchio) di Georges de La Tour (1639-43).

Caravaggio, Conversione della Maddalena, (c.1599) - [Public domain], via Wikimedia Commons
Caravaggio, Conversione della Maddalena, (c.1599) – [Public domain], via Wikimedia Commons

Soffermiamoci su quest’ultima.

Georges de La Tour è stato un pittore francese, esponente del barocco e interprete in modo personale della scuola caravaggista. Qui ritrae Maria Maddalena in una stanza in penombra. La donna è seduta presso un basso mobiletto su cui è posato uno specchio, il suo volto è visibile solo per un quarto; ha le lunghe chiome sciolte e le mani serenamente intrecciate sopra un teschio appoggiato sulle gambe, in un atteggiamento di quieta familiarità. Il suo sguardo è volto verso lo specchio, che riflette su di lei la luce della candela che si sta consumando (simbolo della vita e della sua brevità) e che raddoppia la fiamma alta e intensa (la fiamma e il suo riflesso, la vera luce e quella falsa, la verità e l’illusione).

Georges de La Tour, Maddalena penitente (o Maddalena allo specchio), tra 1639 e 1643 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Georges de La Tour, Maddalena penitente (o Maddalena allo specchio), tra 1639 e 1643 – [Public domain], via Wikimedia Commons

Dietro lo specchio, l’ombra densa della notte, che conferisce alla scena un’atmosfera di misteriosa solennità. A rammentare l’ormai disprezzata vita passata, precedente alla conversione, sparsi sul piano del tavolo e sul suolo, giacciono dimenticati alcuni gioielli.

La candela è l’unica fonte luminosa del quadro, la cui fiamma pare ondeggiare leggermente al respiro della donna; la posizione della Maddalena, raccolta e schiva – che sembra chiusa in se stessa e quasi rifiutare l’incontro con l’osservatore – conferisce alla scena un significato di serena pace interiore e di intima meditazione. La luce sommessa e vibrante della stanza crea un clima di commossa partecipazione emotiva; un grande senso di pace si irradia dalla placida compostezza di quelle mani intrecciate, che hanno affrontato e superato l’abisso del tormento interiore.

L’attenzione di chi guarda è catturata dal teschio e dalla fiamma che si consuma, simboli entrambi del tempo che passa. Ma la candela è anche simbolo della luce della fede, che brucia e consuma l’anima di chi a lei si abbandona. Qui lo specchio non riflette un volto, ma una luce.

Attraverso l’ambientazione notturna e l’illuminazione artificiale, l’autore riesce a concentrare la rappresentazione sull’essenziale, isolandolo dalle tenebre e raggiungendo livelli tali di astrazione da fare di questo dipinto un’opera senza tempo. Quella che racconta è una storia di redenzione e di raggiunta pace interiore.

Georges de La Tour ha dipinto altre Maddalene penitenti, condizionato forse da un tema, quello della riflessione sulla morte, che ben si adattava al suo stato psicologico e al clima dei tempi, quando la Lorena era devastata dalla peste e dalla guerra.

Georges de La Tour, Maria Maddalena penitente, 1635 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Georges de La Tour, Maria Maddalena penitente, 1635 – [Public domain], via Wikimedia Commons

Alla prima metà del Seicento risale anche quest’opera, eseguita da un altro pittore del barocco francese, Trophime Bigot, dove sono presenti tutti gli elementi appartenenti al tema della vanitas e del memento mori.

Trophime Bigot, Allegoria della vanitcà, Galleria di Palazzo Barberini a Roma - [Public domain], via Wikimedia Commons
Trophime Bigot, Allegoria della vanitcà, Galleria di Palazzo Barberini a Roma – [Public domain], via Wikimedia Commons

Del Seicento italiano segnaliamo un’opera, alquanto macabra, del veronese Jacopo Ligozzi e una del pittore di origini genovesi Bernardo Strozzi.

Jacopo Ligozzi, Memento Mori. Natura Morta Macabra, 1604 - pinterest
Jacopo Ligozzi, Memento Mori. Natura Morta Macabra, 1604 – pinterest

Nel dipinto seguente, Bernardo Strozzi dà una interpretazione originale della vanitas, con umorismo mordace delle umane debolezze. Egli non rappresenta una donna bella e nel rigoglio della sua età giovanile, ma una vecchia che, ignara della sua fisica decadenza e accecata dalla vanità, si mira allo specchio, che mostra invece impietosamente la realtà che ella si rifiuta di vedere. L’espressione dell’ancella, che cerca di abbellire l’acconciatura con una piuma, è beffarda e ironica e fa da contrappunto all’espressione di compatimento dell’altra. Al tema della vanità rimandano alcuni oggetti sulla toeletta, un prezioso vaso d’argento con manico a forma di arpia, un ventaglio, una boccetta di profumo, dei monili, e soprattutto i fiori: la rosa che si riflette nello specchio indica la caducità della vita, l’avvizzire della carne e della bellezza fisica e i fiori d’arancio, attributo consueto delle spose, indicano probabilmente che la donna è ancora in cerca di marito.

Bernardo Strozzi, Vanitas (La vecchia civetta), 1635 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Bernardo Strozzi, Vanitas (La vecchia civetta), 1635 – [Public domain], via Wikimedia Commons

Questo tema non si esaurirà nel Seicento, se ancora alla fine del XIX secolo troviamo questa immagine del pittore e illustratore statunitense Charles Allan Gilbert, conosciuto essenzialmente per questa litografia, dal titolo All is vanity, che si riallaccia alla lunga tradizione dei Memento mori o Vanitas.

Il disegno è un’illusione ottica, una delle più celebri, e rappresenta la scena di una donna che si ammira in uno specchio e che, vista da lontano, assume la forma di un teschio umano. E vanity è in inglese anche il termine che indica quel mobile, la toilette, di fronte a cui le donne usavano un tempo specchiarsi e profumarsi.

Quest’immagine è stata rifatta e reinterpretata tantissime volte e nei contesti più vari, dalla pubblicità alle copertine di dischi. Il motivo della vanitas vanitatum torna nella comunicazione di massa moderna a rammentare la fugacità della bellezza e delle cose mondane, ma soprattutto la loro, seppur macabra, seduzione.

Charles Allen Gillbert, All is vanity - [Public domain], via Wikimedia Commons
Charles Allen Gillbert, All is vanity – [Public domain], via Wikimedia Commons

LO SPECCHIO E LA PRUDENTIA

Dai sette peccati capitali alle quattro virtù Cardinali. Lo specchio non ha avuto esclusivamente una connotazione negativa come simbolo dell’inganno, della vanità e della fugacità del tempo.

L’allegoria della Prudenza (una delle quattro virtù cardinali, emanazione della Sapienza divina e primo dono dello Spirito Santo), variamente rappresentata nel corso del Medioevo e del Rinascimento, raffigura infatti una giovane donna accompagnata generalmente da due elementi: un serpente e uno specchio. Il serpente richiama il versetto del Vangelo “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Matteo, 10, 16); esso è simbolo dell’intelligenza usata contro le avversità e parallelamente, essendo un antico simbolo del tempo, il serpente sta anche a ricordare che la Prudenza è figlia del tempo, cioè dell’esperienza.

L’immagine della giovane donna che guarda il proprio volto riflesso nello specchio compare nella iconografia del tardo Medioevo e viene utilizzata frequentemente nella pittura e nella scultura dell’arte rinascimentale italiana. Lo specchio è attributo della virtù che impone la conoscenza di se stessi in quanto condizione preliminare per regolare le proprie azioni, e per agire dunque in modo virtuoso. La conoscenza di sé implica infatti quella delle proprie possibilità e dei propri limiti.

Questa di Piero del Pollaiolo (fratello del più noto Antonio) è una delle raffigurazioni della Prudenza.

Piero Del Pollaiolo, Prudenza, 1470 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Piero Del Pollaiolo, Prudenza, 1470 – [Public domain], via Wikimedia Commons

Il Tribunale della Mercanzia di Firenze aveva commissionato a questo pittore un intero ciclo di sette virtù (le 3 teologali più le 4 cardinali). Tuttavia, forse per la lentezza con cui i lavori precedevano, anche Sandro Botticelli riuscì ad inserirsi nella commissione ed ebbe l’incarico di dipingere la Fortezza. E così oggi le sei virtù di Piero e la Fortezza di Botticelli sono tutte esposte agli Uffizi.

Le Quattro allegorie sono una serie di quattro tavolette dipinte a olio di Giovanni Bellini, databili 1490 circa e conservate nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Rappresentano la Perseveranza, la Menzogna, la Fortuna e la Prudenza.

In questo caso la donna raffigurata nella tavola della Prudenza non viene ritratta nell’atto di specchiarsi, ma mentre addita lo specchio, invitando lo spettatore a guardare in esso la verità delle cose. Nello specchio compare il riflesso di un volto, probabilmente quello dello stesso committente.

Le quattro tavolette decoravano anticamente un mobiletto da toeletta di noce (detto restello), dotato anche di specchiera e rastrelliera appendi-abiti. Non era raro che la loro decorazione comprendesse raffigurazioni simboliche a carattere moraleggiante.

Facciamo attenzione alla particolare forma convessa di questo specchio. Nel passato questo tipo veniva chiamato Oeil de sorcière (occhio di strega) o specchio dei banchieri. Usato nelle case come portafortuna, contro il malocchio e per cacciare le streghe, nelle botteghe di orafi e banchieri era un efficace strumento per tenere sotto controllo il negozio. L’ardito gioco prospettico offerto dalla curvatura della lastra specchiante si prestava a raffinati esercizi di stile, permettendo inoltre di includere nel quadro particolari e personaggi esterni alla rappresentazione.

Giovanni Bellini, La prudenza, 1490 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Giovanni Bellini, La prudenza, 1490 – [Public domain], via Wikimedia Commons

A Pietro Vannucci, detto il Perugino, è attribuito l’affresco Prudenza e Giustizia con sei savi antichi, appartenente al ciclo della “Ornamentazione del Cambio”. La Sala delle Udienze del Collegio del Cambio a Perugia era il salone principale della sede dell’Arte del Cambio locale. Si tratta di un salone monumentale dove il Perugino eseguì su commissione un ciclo di affreschi il cui tema è la concordanza fra sapienza pagana e sapienza cristiana, elaborato dall’umanista Francesco Maturanzio.

Pietro Vannucci, detto il Perugino, Prudenza e Giustizia con sei savi antichi, 1497 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Pietro Vannucci, detto il Perugino, Prudenza e Giustizia con sei savi antichi, 1497 – [Public domain], via Wikimedia Commons

Lo specchio e il serpente compaiono anche in quest’altra Allegoria della Prudenza, del pittore fiorentino del Cinquecento Girolamo Macchietti. Particolare degno di nota di questo dipinto è la presenza del doppio volto: davanti quello di una giovane donna, dietro quello di un vecchio saggio, ad indicare che la prudenza non può essere separata dall’esperienza.

Girolamo Macchietti, Allegoria della Prudenza (1535-1592) - [Public domain], via Wikimedia Commons
Girolamo Macchietti, Allegoria della Prudenza (1535-1592) – [Public domain], via Wikimedia Commons

Al pittore francese Simon Vouet appartiene l’opera seguente. Stabilito in Italia per quasi vent’anni fu uno dei maggiori esponenti del caravaggismo prima di ritornare in Francia nel 1627, dove contribuì all’introduzione del barocco italiano in Francia.

Simon Vouet, Allegory of Prudence, 1645 - [Public domain], via Wikimedia Commons
Simon Vouet, Allegory of Prudence, 1645 – [Public domain], via Wikimedia Commons

I monumenti funebri ospitano spesso sculture raffiguranti la Prudenza.

La tomba di Francesco II di Bretagna e di sua moglie Margherita di Foix si trova a Nantes, all’interno della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, e fu realizzata in marmo di Carrara all’inizio del XVI secolo da Michel Colombe (scultore) e Jehan Perréal (architetto).

Ai quattro angoli del sarcofago ci sono quattro statue, ciascuna delle quali rappresenta una delle virtù cardinali: la giustizia, la fortezza, la temperanza e la prudenza.

La prudenza ha in una mano un compasso, simbolo della misura di ogni azione, e nell’altra uno specchio, verso cui è indirizzato lo sguardo della statua. Nella allegoria della Prudenza lo specchio è simbolo di Verità: esso riflette le cose passate e future e pertanto dona a chi lo guarda saggezza e conoscenza.

Anche la testa di questa statua possiede due volti, quello della giovane donna e quello del vecchio saggio, motivo che ricorre spesso nelle raffigurazioni di questa virtù. Ai suoi piedi troviamo il serpente, come si è visto altro simbolo di prudenza.

Tomba di Francesco II di Bretagna, Michel Colombe e Jehan Perréal, 1502-1507 - Pinterest
Tomba di Francesco II di Bretagna, Michel Colombe e Jehan Perréal, 1502-1507 – Pinterest

Nella Basilica di San Pietro ci sono ben due monumenti funebri nei quali è presente la statua della Prudenza. In fondo alla navata centrale della Basilica, nella nicchia di sinistra dell’abside, c’è il monumento funebre di Paolo III Farnese, il papa della Controriforma, eseguito da Guglielmo della Porta, sotto la supervisione di Michelangelo. Sul sarcofago di marmo bianco, s’innalza la figura in bronzo di Paolo III, seduto sul trono. Sotto di essa, raffigurate sdraiate ai suoi piedi, il Della Porta ha scolpito nel marmo due figure allegoriche: la Giustizia e la Prudenza. La Prudenza ritrae le fattezze della madre del Papa, Giovannella Caetani, e regge nella mano destra proprio uno specchio. La Giustizia è il ritratto della bellissima Giulia Farnese, la sorella del Papa e amante preferita di Alessandro VI Borgia. Il corpo stupendo di Giulia, scolpita completamente nuda dal Della Porta, mise subito in imbarazzo il personale del Vaticano, alle prese con un crescendo giornaliero di visitatori, più interessati alle grazie di Giulia che allo stesso Pontefice. Ritenendo non più sopportabile questo stato di cose, nel 1595 Clemente VIII fece ricoprire le nudità dell’affascinante Giulia con un manto di metallo verniciato di bianco, come se fosse stato fatto in origine dallo stesso Della Porta (dell’episodio ne parlerà anche il poeta satirico Gioacchino Belli).

Ma la statua continuò ad attirare la curiosità dei visitatori, soprattutto nel Settecento, quando si scoprì che la veste si poteva rimuovere per fare ammirare le nudità sottostanti. A lungo si disse che i guardiani della Basilica (San Pietrini) dietro compenso di uno zecchino erano disposti a sollevare per qualche istante il lenzuolo di metallo per far ammirare le sottostanti beltà.

Il monumento, iniziato nel 1549, fu completato solo nel 1574.

Guglielmo della Porta, Tomba di Paolo III, La Giustizia e la Prudenza - www.atlantedellarteitaliana.it
Guglielmo della Porta, Tomba di Paolo III, La Giustizia e la Prudenza – http://www.atlantedellarteitaliana.it

San Pietro ospita anche il monumento funebre del papa Alessandro VIII, ricordato per aver elargito su larga scala sia la carità ai bisognosi che le nomine ai propri famigliari, facendo esaurire le casse del Regno. La tomba fu progettata da Arrigo di San Martino e realizzata da Angelo de’ Rossi e Giuseppe Bertosi e tra le statue presenti troviamo anche un’allegoria della Prudenza:

Angelo De' Rossi - Allegory of Prudence by on the monument of Pope Alexander VIII (1689-1691) - Flickr.com Creative Commons
Angelo De’ Rossi – Allegory of Prudence by on the monument of Pope Alexander VIII (1689-1691) – Flickr.com Creative Commons

Ancora uno splendido esempio di scultura Barocca fiorentina, opera dell’artista Giovanni Baratta.

Pochi anni fa questa statua ha fatto notizia. Una coppia di sculture in marmo di Carrara a grandezza naturale raffiguranti le allegorie della «Ricchezza» e della «Prudenza», che dal 1905 si trovavano nelle collezioni del magnate statunitense del tabacco James Buchanan Duke senza attribuzione, sono state identificate come opera del celebre artista carrarese e sono state messe all’asta presso la galleria londinese Trinity Fine Art nel giugno 2010.

Le statue erano state commissionate a Baratta dal nobiluomo fiorentino Niccolò Maria Giugni per il suo palazzo in via degli Alfani a Firenze.

La Prudenza è raffigurata nell’atto di riflettersi e di guardarsi alle spalle con l’aiuto di uno specchio. Secondo alcune interpretazioni, lo specchio tenuto in quel modo in posizione verticale (presente in altre raffigurazioni di questa virtù), serve non solo per specchiarsi e conoscere se stessi, ma anche per poter scorgere gli eventuali pericoli che arrivano da dietro.

Giovanni Baratta (1670-1747), La Prudenza - Flickr.com Creative Commons