Ritrovata un’opera storicizzata del 1974 del maestro Giorgio Rastelli. Acquistata da Loris Zanrei CEO di Magnolia Arte, e’ stata restaurata dallo scultore piacentino

A cura di redazione

Giorgio Rastelli, scultore con Loris Zanrei CEO di Magnolia Arte e collezionista

Un’opera storicizzata dello scultore piacentino Giorgio Rastelli e’ stata ritrovata nei mesi scorsi da Loris Zanrei, CEO di Magnolia Arte e collezionista. L’opera, datata 1974, e dal titolo “Figura di donna” era nell’abitazione di privati che hanno gentilmente permesso l’acquisto allo stesso Zanrei per poter procedere al restauro dell’opera, eseguita direttamente dal maestro e presentata al pubblico in questi giorni. 

Lo scultore Giorgio Rastelli 

Giorgio Rastelli è un noto scultore italiano le cui opere sono state esposte in mostre personali e collettive a livello internazionale. Lavorando il legno, Rastelli crea sculture figurative su larga scala che poi dipinge in acrilici brillanti. Il suo lavoro esplora il movimento della forma femminile e ogni pezzo mostra una grande abilità tecnica dando vita a emozioni vive. 

Giorgio Rastelli nasce a Milano nel 1940. Frequenta Brera ed altre scuole d’arte. Dal 1964 espone in varie gallerie italiane ed estere. Dopo una iniziale ricerca tra il formale e l’informale, Rastelli approda con l’uso del legno a nuove soluzioni figurative, protagonista la figura femminile. Nel 1978, per il Centro Scolastico di Pantagliate (Milano), realizza il “Giardino Incantato” e nel ’79 installa una scultura-gioco il “Rinoceronte” studiata per il Comune di Reggio Emilia. Nel 1985 Rastelli incomincia a inserire il colore sulle sculture per sottolineare la dinamicità. Nel 1992 studia e realizza il mosaico “Tuffatrice” per la piscina interna al palazzo seicentesco “Villa Albera” (Crema). Nel 1997 inserisce nella collezione Geo Camponovo (Chiasso) un’importante installazione “Donne nel cielo”. Nel ’99 sperimenta l’utilizzo del bronzo policromo per una fontana-scultura studiata per una piazza di Follonica. Nel 2001 Rastelli realizza la sua più grande opera scultorea, la “Balena”, per il Museo Geologico di Castell’ Arquato. Grande mostra personale, nel 2002, nelle scuderie leonardesche del Castello di Vigevano, organizzata dal Comune. Nel 2003 installazione “Cenerentola” per il Museo della Calzatura al Castello di Vigevano, inoltre viene scelto come artista rappresentativo dell’idea di energia per l’esposizione “International Energy Forum” a Rimini dove un’onda blu, lunga 42 metri, diventa lo sfondo narrante del movimento delle sculture. Il Comune di Cesena lo invita nel 2004 per la mostra personale nella Galleria d’arte Ex-Pescheria, dove il tema dell’acqua diventa protagonista. Nel 2005 mostra itinerante nei Palazzi Storici del Borgo medioevale di Castell’Arquato. Nel 2008 alla Fondazione San Domenico a Crema espone sculture legate al balletto e al circo immaginario nel bellissimo chiostro trecentesco. Nel 2010 realizza a Milano una vetrata con la tecnica legata a piombo. Nel 2011 dopo la mostra al Centro Porsche Milano, con i pannelli dipinti delle macchine che corrono, le sculture sono esposte al Teatro Aster Dome di Kiev. Nel 2012 è invitato alla mostra “sMobili-tazioni d’arte” curata da Gilberto Grilli e voluta da Demura nel Palazzo Bossi Clerici a Milano. A Bari nel 2013 a Palazzo Murat partecipa alla mostra Tra Arte e Design. Per tre anni è presente alle rassegne di Bocconi Art Gallery. Nel 2015 viene installata la scultura in bronzo dipinto “Ginnasta” in Piazzetta Barcella a Mestre. Nel 2016 personale a Torino, Galleria Old Art & Design, presentazione di Ugo Nespolo. Le sue opere sono presenti al Museo della fotografia di Hannover, al Museo di Crema e al Museo del Castello di Zavattarello. Nel 2020 mostra Movements al Museo MAT di San Severo e Apart,Torino. Nel 2021 Human Generation, esposizione Strada Sotterranea, Castello di Vigevano e XIII edizione di Florence Biennale. Nel 2022 con la Galleria G72 la mostra “C’era una volta a Bergamo”.  Le sue opere sono presenti al Museo della fotografia di Hannover, al Museo di Crema, al Museo Geologico di Castell’Arquato e al Museo del Castello di Zavattarello. Vive e lavora nella campagna piacentina.

L’opera ritrovata del 1974 “Figura di donna” di Giorgio Rastelli – misura 73 x 50 cm – legno e acrilici 

Loris Zanrei sul recupero dell’opera dello scultore piacentino: . “È stato un onore giocare un ruolo nel recuperare un’opera d’arte del maestro Giorgio Rastelli, di cui sono collezionista e amico. Possiedo già un’opera di Rastelli e non ho fatto fatica a riconoscerne lo stile e il valore appena mi sono imbattuto nella scultura. Il condition report dell’opera era un po’ discutibile a causa del tempo e della cattiva conservazione ma con l’intervento di restauro del maestro e’ ritornata nello splendido stato originale. Ora andrà arricchire la mia collezione privata ma resterà a disposizione dell’archivio e del maestro in caso di nuove mostre ed esposizioni in Italia o all’estero.”

Giorgio Rastelli: “Sono molto felice di aver ritrovato, per merito dell’amico Loris Zanrei, un’opera del mio passato artistico. La voglia di uscire dal riquadro, l’inizio dell’uso del legno, i colori vivi e puliti sono l’origine del mio percorso con questo materiale. Il legno mi ha accompagnato e dato l’opportunità di poter giocare con la mia fantasia, di creare sculture, figure umane, animali, oggetti a grandezza naturale. Spero di poter organizzare una mostra antologica e, sicuramente, quest’opera del ’74 verrà esposta perché significativa del passaggio dall’Arcaismo geometrico, inspirato ai miei viaggi nel deserto, al mio bisogno di celebrare l’immagine femminile.” 

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La storia del museo – MUDES

 

MUDES MUSEO ITALIANO

MUSEO DELLE STRANEZZE NELL’ARTE

Gli spazi del museo, oggi, costituiscono un polo espositivo per mostre ed eventi temporanei.

Una varietà tra opere, sculture, dipinti e fotografie, affrontano la tematica della stranezza attraverso la storia dell’arte. Opere da collezionismo, antiche e moderne, museali e inedite. Questo antro di stranezze presenterà opere e reperti, divisi per epoche e tipologie

MUSEO ITINERANTE DI STRANEZZE NEL MONDO DELL’ARTE

Contattaci per sapere il calendario di mostre ed eventi in Italia

Mudes e’ un marchio registrato. Il Mudes e’ l’unico museo delle stranezze italiano nel mondo dell’arte.

Modalità espositiva del MUDES

La modalità espositiva in una sala museale può essere classificata considerando, anzitutto, le tipologie di esposizioni e le loro caratteristiche e, successivamente, considerando altri aspetti quali l’approccio e lo stile.  In questo modo, esistono le esposizioni permanenti, quelle temporanee, le itineranti.

Esposizione permanente è quella di riferimento di un museo. E’ lo spazio ove possono essere apprezzate le principali collezioni e dove il discorso o il tema conduttore dello stesso museo viene plasmato. Per musei specializzati, quale quello del Mudes, che possiedono una linea chiara, è  opportuno e conveniente avere una esposizione permanente, anche se non si esclude sviluppare in modo parallelo altre forme.

Un’esposizione permanente possiede le stesse funzioni basilari di comunicazione d’una temporanea o itinerante.  In tutto questo contesto, “permanente” si riferisce al fatto che detta esposizione possiede una durata pluriennale.

Le esposizioni che hanno generalmente un buon risultato nel tempo, sono quelle in cui l’informazione viene aggiornata anche se, nello schema di base, non avvengono grosse modifiche nel tempo.

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Il ricco e stimolante tema della Vanitas, tema centale del nostro percorso museale, rivisitato attraverso un innovativo percorso, prevede l’esposizione di opere di grandi maestri –  realizzate tra la fine del XVI secolo e il XVIII secolo – che affrontano il tema della caducità della vita e l’essenza effimera delle vanità umane.

Mudes, il museo delle stranezze, primo museo di curiosità italiano si avvale delle perizie del Professor Guido Concari.

Servizi offerti da Mudes con la supervisione del Prof. Guido Concari

Servizi offerti:

  • Perizia
  • Stima Mobili Antichi
  • Valutazione Dipinti
  • Catalogazione
  • Expertise
  • Verbale di costatazione
  • Inventario
  • Divisioni ereditarie
  • Legge Guttuso
  • Parere Motivato
  • Consulenza
  • Condition Report
  • Assistenza al rilasccertificato di autenticità da Fondazioni, Archivi
  • Consulenze per
  • Mostre
  • Beneficio di inventario
  • Inventari per amministrazione di sostegno
  • periti arte e antiquariato

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Un’opera del giapponese Mito Nagasawa acquistata dal museo “ Mudes “

E’ l’opera dal titolo “ madre “ l’opera scelta dal Mudes per investire su uno dei più giovani e interessanti artisti del panorama internazionale, Mito Nagasawa.

“ madre “ di Mito Nagasawa – misure 160 X 220 cm, arte digitale, tempere, e oro in foglia

Mito Nagasawa ha una storia tutta particolare, celebre in Giappone come performer digitale, era un totale sconosciuto nel nostro paese. Portato in Italia da LZ Communication di Loris Zanrei ha iniziato a sperimentare “ artisticamente “ ed essere presente in mostre e musei. Oggi è il classico artista Internazionale sul quale scommettere. A Tokio espone già da anni nei musei in Italia ha appena iniziato. Decisamente un buon segno.

Vanitas & stranezze dal mondo, in arrivo la mostra in Italia

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Farsi attraversare dallo stupore dell’esistenza, ovvero Vanitas & stranezze dal mondo (una danza macabra fra ironia, glamour, gotico e kitsch), un’idea di Loris Zanrei, gallerista ed editore dei magazine Arting News e Diciotto. Il progetto è quello di raccogliere oggetti e opere d’arte provenienti dalle collezioni private di tutto il mondo e presentarle al grande pubblico in una grande mostra espositiva italiana. Zanrei, già curatore del museo delle stranezze da vita ad un’iniziativa dallo style decisamente internazionale.
Cosa sono oggi le Vanitas, forse un tema macabro, polveroso, spettrale? Neanche per sogno, visto che per l’argentiere toscano il “memento mori” diventa motivo per celebrare la vita, per cantare gli anni felici e spensierati proprio attraverso la metafora artistica e naturale della morte.

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Così il ghigno del teschio diventa un sorriso ironico e le ombre diventano luce. Un teschio riletto in chiave Pop, in chiave Rock, all’insegna del glamour neogotico contemporaneo. Ecco collane fatte di serpi, orecchini scheletrici, sedie con gli scorpioni, mini-vanitas composite, specchi allegorici, vassoi ricchi di scarafaggi e candelabri coi pipistrelli. Simboli dell’eternità come le tartarughe, i vermi e le conchiglie accostati a sentinelle dell’effimero quali i fiori secchi, le ragnatele o le farfalle.
Si porgerà  ai visitatori della mostra un bouquet di ispirazioni che partono da elementi simbolici, scaramantici, e surreali per giungere puntuali a quello che è il piatto forte di Loris Zanrei: le sculture in cera, in pietra, corallo, legno o plastica.

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Loris Zanrei curatore della mostra, con Vittorio Sgarbi

La mostra sarà  corredata da un catalogo omonimo, arricchito dal testo introduttivo di critici e ospiti dal mondo dell’arte, sarà allestita con la collaborazione di scenografi e designer.
Per le creazioni Loris Zanrei,  metterà in scena una vera scenografia teatrale ricca di atmosfere dark, velluti porpora e luci soffuse: per l’allestimento il curatore si è ispirato alla narrativa inglese di epoca romantica, ove il soprannaturale e il tenebroso si trasformavano in narrazioni affascinanti. Saranno presenti opere contemporanee e antiche, in arrivo da privati e musei, con la collaborazione ed il patrocinio di Arting News Magazine e diciotto magazine.

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Tutti i privati, collezionisti, addetti ai lavori, in possesso di opere macabre, stranezze, vanitas, curiosità, possono mettersi in contatto con la nostra redazione al fine di proporre opere da esporre nella suggestiva mostra.

museodellestranezze.com

News dal museo

Totentanz è una ballata medioevale che perfettamente si addice allo stile di Dino Battaglia, appena 8 tavole in cui Battaglia recupera fedelmente il concetto di Totentanz (Danza della morte o Danza Macabra), diffuso nella pittura medioevale, per accompagnarci in una favola nera.
Col nome di Totentanz si è soliti designare le raffigurazioni della morte che danza con le anime degli uomini trasportandole verso il suo regno, la morte che non fa alcuna distinzione fra razza, sesso, ceto e religione quando si tratta di accompagnare le anime nel loro ultimo viaggio. Ma Totentanz può essere anche una ballata medioevale, una filastrocca che gioca sul tema della morte e sulla vanità delle ambizioni umane.
In particolare Battaglia si ispira ad un celebre affresco raffigurante una Danza Macabra, ovvero quello presente nella chiesa di San Vigilio, presso Pinzolo, dipinto dal pittore cinquecentesco Simone Baschenis de Averara nel 1539. Questo affresco raffigura tre scheletri che suonano strumenti (uno dei tre rappresenta la Morte con trono e corona), un Cristo in croce ed a seguire un corteo costituito da diciotto coppie intente a danzare, ogni coppia formata da un personaggio vivo e da un morto che lo accompanga nel ballo (e fra queste non mancano ecclesiastici come papi, vescovi e cardinali). L’affresco in questione è famoso anche perché sotto le immagini riporta un poema/filastrocca dedicato alla morte ed in tema con le immagini raffigurate (“Io sont la morte che porto corona/Sonte signora de ognia persona…”). Questo poema viene riutilizzato da Battaglia per scandire l’inesorabile destino che accompagna lo sprovveduto protagonista della storia. Ed in questo modo il fumetto di Battaglia è più volte fedele al titolo che utilizza.

In Totentanz siamo immediatamente trasportati nel vivo della vicenda e troviamo Peter, un pittore di chiese al servizio dell’avaro maestro Annekeen, intento a cercare di derubare il proprio padrone. Colto sul fatto, Peter non esita ad uccidere il suo avaro datore di lavoro e sbarazzarsi del corpo, fantasticando sul suo oro e la sua donna, Marion. Ma le cose non andranno secondo i piani, la moglie non sarà interessata a scappare con lui e la figura dell’avaro tornerà a terrorizzare le sue giornate predicendogli l’impossibilità di godere del denaro e la sua imminente morte.

Come è naturale il crudele pittore non potrà fare altro che unirsi con l’avaro e tante altre povere anime in una tragica danza nell’ultima straordinaria vignetta del fumetto.
Come sempre impeccabile nella realizzazione grafica, questa cupa e nerissma favola morale riesce a ricreare alla perfezione l’impressione lasciata dalle tante raffigurazioni di danze macabre ed a confermare il talento gotico di Battaglia.
Pubblicata la prima volta su linus n. 61 dell’aprile 1970 è stata successivamente riproposta più volte in rivista ed in volume. La prima apparizione in volume si ha in un albo che prende il nome dal racconto, Totentanz edito da Milano Libri nel 1972. Nell’aprile 1984 la storia appare in una versione colorata dalla moglie Laura Battaglia sulla rivista alteralter (anno 11 n. 4). Più di recente il fumetto è stato riproposto nel volume antologico di opere di Dino Battaglia Racconti 2, 12mo volume della collana Le Onde a cura delle Edizioni Di.
Nel 1993 il personaggio di Dylan Dog sarà protagonista di una storia omonima ideata da Sclavi e Marcheselli e disegnata da Giampiero Casertano.

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L’antico tema della Vanitas, reinterpretato dall’obiettivo di Drik Dickinson

Originaria di Venezia e di base in Irlanda, con una specializzazione in botanica conseguita all’Università di Galway, l’artista Drik Dickinson svela a Verona dieci suoi nuovi lavori. Continuando a misurarsi con il tema della Vanitas.

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Unificati dall’essere stati immortali in studio, i soggetti della nuova serie di fotografie che l’artista Drik Dickinson sta presentando negli spazi di Studio la Città, a Verona, si relazionano tutti con la multiforme dimensione dell’acqua.
Veneziana di nascita ma irlandese d’adozione, in occasione della mostra Inside Dickinson espone infatti dieci lavori in cui continua a relazionarsi con il tema della Vanitas, proseguendo con l’itinerario cui la sua intera opera è intimamente legata.

Come lascia intendere anche dal titolo di questa nuova personale, nella serie esposta l’acqua prende le distanze dalle composizioni casuali, legate alla fotografia all’aperto, nelle quali incidono elementi come il tempo, la corrente e la luce.
L’elemento acquatico, presenza imprescindibile sia visivamente sia allegoricamente nel linguaggio di Drik Dickinson, appare così “costretto all’interno di secchi, recipienti avvolti da strati di plastica e dove, a volte, l’elemento floreale è invece finto, sia esso nel pieno della sua fioritura o nella fragilità del suo avvizzimento.”
A riguardo, la stessa artista ha sottolineato come “l’acqua, visione e allegoria, è il tema che mi domina. La trasparenza mi porta al fondo oltre lo specchio, il fondo mi riporta alle domande della superficie. Continuare e fermare: a volte ho l’impressione che il mio lavoro sia una testimonianza privata, da confessare a nessuno, sulla caducità della vita come la sento, come si presenta ai miei occhi, materialmente.”
[Immagine in apertura: Drik Dickinson, Inside 62#, 2016, Ed. 1/5. Immagine nell’articolo: Drik Dickinson, Inside 41#, 2017, Ed. 1/5

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Vanitas, un tema antico nell’opera di Maldague

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Il teschio umano è uno dei grandi soggetti dell’arte europea dal XVI al XVII secolo. Utilizzato nella natura morta olandese e tedesca come Memento mori, ma anche come oggetto di meditazione (nelle rappresentazioni di Maria Maddalena) e simbolo di riflessione (nei filosofi), è anche una forma affascinante di enorme complessità plastica. Un tema esplorato dai maestri del Novecento, che Nicolas Maldague, uno dei più importanti incisori francesi contemporanei, affronta con tecnica sontuosa e sguardo moderno. L’artista normanno presenta alla galleria Bellinzona di Milano 60 opere recenti sul tema della Vanitas, in dialogo con quelle di Picasso, Baselitz, Morlotti, Rouault, Francese e altri grandi del secolo scorso. I lavori sono allestiti nella mostra curata da Michele Tavola fino al 12 gennaio 2013. (Nell’immagine: Memento mori, 2010

Bizzarrie dai musei dal mondo

New York, Novembre 2011. È notte. Il vento gelido frusta le guance, s’intrufola fra i grattacieli e scende sulle strade in complicati vortici, senza che si possa prevedere da che parte arriverà la prossima sferzata. Anche le correnti d’aria sono folli ed esagerate, qui a Times Square, dove il tramonto non esiste, perché i maxischermi e le insegne brillanti degli spettacoli on-Broadway non lasciano posto alle ombre. Le basse temperature e il forte vento non fermano però il vostro esploratore del bizzarro, che con la scusa di una settimana nella Grande Mela, ha deciso di accompagnarvi alla scoperta di alcuni dei negozi e dei musei più stravaganti di New York.

Partiamo proprio da qui, da Times Square, dove un’insegna luminosa attira lo sguardo del curioso, promettendo meraviglie: si tratta del museo Ripley’s – Believe It Or Not!, una delle più celebri istituzioni mondiali del weird, che conta decine di sedi in tutto il mondo. Proudly freakin’ out families for 90 years! (“Spaventiamo le famiglie, orgogliosamente, da 90 anni”), declama uno dei cartelloni animati.

L’idea di base del Ripley’s sta proprio in quel “credici, oppure no”: si tratta di un museo interamente dedicato allo strano, al deviante, al macabro e all’incredibile. Ad ogni nuovo pezzo in esposizione sembra quasi che il museo ci sfidi a comprendere se sia tutto vero o se si tratti una bufala. Se volete sapere la risposta, beh, la maggior parte delle sorprendenti e incredibili storie raccontate durante la visita sono assolutamente vere. Scopriamo quindi le reali dimensioni dei nani e dei giganti più celebri, vediamo vitelli siamesi e giraffe albine impagliate, fotografie e storie di freak celebri.

Ma il tono ironico e fieramente “exploitation” di questa prima parte di museo lascia ben presto il posto ad una serie di reperti ben più seri e spettacolari; le sezioni antropologiche diventano via via più impressionanti, alternando vetrine con armi arcaiche a pezzi decisamente più macabri, come quelli che adornano le sale dedicate alle shrunken heads(le teste umane rimpicciolite dai cacciatori tribali del Sud America), o ai meravigliosi kapala tibetani.

Tutto ciò che può suscitare stupore trova posto nelle vetrine del museo: dalla maschera funeraria di Napoleone Bonaparte, alla pistola minuscola ma letale che si indossa come un anello, alle microsculture sulle punte di spillo.

Talvolta è la commistione di buffoneria carnevalesca e di inaspettata serietà a colpire lo spettatore. Ad esempio, in una pacchiana sala medievaleggiante, che propone alcuni strumenti di tortura in “azione” su ridicoli manichini, troviamo però una sedia elettrica d’epoca (vera? ricostruita?) e perfino una testa umana sezionata (questa indiscutibilmente vera). Il tutto per il giubilo dei bambini, che al Ripley’s accorrono a frotte, e per la perplessità dei genitori che, interdetti, non sanno più se hanno fatto davvero bene a portarsi dietro la prole.

Insomma, quello che resta maggiormente impresso del Ripley’s – Believe It Or Not è proprio questa furba commistione di ciarlataneria e scrupolo museale, che mira a confondere e strabiliare lo spettatore, lasciandolo frastornato e meravigliato.

Per tornare unpo’ con i piedi per terra, eccoci quindi a un museo più “serio” e “ufficiale”, ma di certo non più sobrio. Si tratta del celeberrimo American Museum of Natural History, uno dei musei di storia naturale più grandi del mondo – quello, per intenderci, in cui passava una notte movimentata Ben Stiller in una delle sue commedie di maggior successo.

Una giornata intera basta appena per visitare tutte le sale e per soffermarsi velocemente sulle varie sezioni scientifiche che meriterebbero ben più attenzione.

Oltre alle molte sale dedicate all’antropologia paleoamericana (ricostruzioni accurate degli utensili e dei costumi dei nativi, ecc.), il museo offre mostre stagionali in continuo rinnovo, una sala IMAX per la proiezione di filmati di interesse scientifico, un’impressionante sezione astronomica, diverse sale dedicate alla paleontologia e all’evoluzione dell’uomo, e infine la celebre sezione dedicata ai dinosauri (una delle più complete al mondo, amata alla follia dai bambini).

Ma forse i veri gioielli del museo sono due in particolare: il primo è costituito dall’ampio uso di splendidi diorami, in cui gli animali impagliati vengono inseriti all’interno di microambienti ricreati ad arte. Che si tratti di mammiferi africani, asiatici o americani, oppure ancora di animali marini, questi tableaux sono accurati fin nel minimo dettaglio per dare un’idea di spontanea vitalità, e da una vetrina all’altra ci si immerge in luoghi distanti, come se fossimo all’interno di un attimo raggelato, di fronte ad alcuni degli esemplari tassidermici più belli del mondo per precisione e naturalezza.

L’altra sezione davvero mozzafiato è quella dei minerali. Strano a dirsi, perché pensiamo ai minerali come materia fissa, inerte, e che poche emozioni può regalare – fatte salve le pietre preziose, che tanto piacciono alle signore e ai ladri cinematografici. Eppure, appena entriamo nelle immense sale dedicate alle pietre, si spalanca di fronte a noi un mondo pieno di forme e colori alieni. Non soltanto siamo stati testimoni, nel resto del museo, della spettacolare biodiversità delle diverse specie animali, o dei misteri del cosmo e delle galassie: ecco, qui, addirittura le pietre nascoste nelle pieghe della terra che calpestiamo sembrano fatte apposta per lasciarci a bocca aperta.

Teniamo a sottolineare che nessuna foto può rendere giustizia ai colori, ai riflessi e alle mille forme incredibili dei minerali esposti e catalogati nelle vetrine di questa sezione.

Alla fine della visita è normale sentirsi leggermente spossati: il Museo nel suo complesso non è certo una passeggiata rilassante, anzi, è una continua ginnastica della meraviglia, che richiede curiosità e attenzione per i dettagli. Eppure la sensazione che si ha, una volta usciti, è di aver soltanto graffiato la superficie: ogni aspetto di questo mondo nasconde, ora ne siamo certi, infinite sorprese.

(continua…)

Antonio de Pereda, Allegoria della caducità, 1640

L’espressione latina “vanitas vanitatum”, “vanità delle vanità”, tratta dalla Bibbia (Ecclesiaste, 1), deriva da “vanus”, letteralmente “vuoto”, “caduco” e, in ambito pittorico, ricorre nell’accezione di natura morta caratterizzata dalla presenza di oggetti o indicatori simbolici che alludono alla precarietà dell’esistenza, all’inesorabilità del trascorrere del tempo, alla natura effimera dei beni mondani. Si tratta di un’iconografia che all’inizio ha finalità moraleggianti – invita ad abbandonare i piaceri e i desideri venali per occuparsi della salvezza eterna – e che successivamente, durante il Seicentobarocco, assumerà caratteristiche ambigue, volte sì a cantare la caducità della vita – quale che sia -, ma al tempo stesso, considerata la sua natura fragile, di cogliere il giorno, prima che sopravvenga l’eternità.

L’origine della diffusione della vanitas (vanitates, quando si usa il sostantivo latino al plurale) nella sua accezione moraleggiante – o, se vogliamo considerare, il suo ritorno, giacché essa riprende in chiave nuova l’orrore per la materia che si sviluppò in ambito spirituale durante il Medioevo – deve essere inquadrata nell’ambito dell’Europa cinquecentesca, tormentata da annosi conflitti bellici (la Guerra dei Trent’anni), da epidemie, dalla crisi economica seguita alla scoperta dell’America e, soprattutto, dallo scisma religioso e dal turbamento cagionato dalla riforma protestante. Già nel tardo Medioevo, la Chiesa aveva elevato un severo monito, ricordando come le ricchezze accumulate “sub specie aeternitatis” non avessero alcun valore (fossero vane, appunto) e, anzi, conducessero alla dannazione. Al fine di persuadere i peccatori alla redenzione, gli ecclesiastici avevano sollecitato la rappresentazione pittorica di merci di lusso – principalmente prelibatezze culinarie -, accompagnate da un teschio, allusione alla morte. Nel periodo che seguì alla guerra dei Trent’anni, il tema della vanitas fu affrontato in modo assiduo. Afflitto dalle carestie e dalle condizioni economiche disastrose che gravavano sull’intero continente, il popolo europeo percepì per la prima volta, in maniera tragica, la non coincidenza tra ideologia (le motivazioni religiose che avevano giustificato il conflitto) e realtà (il desiderio di bottino e di espansione territoriale). Nelle nature morte del tempo, il verdetto della vanità cadeva più spesso sulla ricchezza e sulle insegne del potere che non sui beni simboleggianti l’avidità della borghesia: corone – come la tiara e la mitra, ma anche corone regali -, un’armatura da cavaliere e il globo, emblema della smania di conquista, non mancavano mai. L’Allegoria della caducità di Antonio de Pereda (1608-1678), risalente al 1640, propone un’amareggiata riflessione sull’autorità imperiale.

Anche sui regni dei grandi sovrani l’orologio porta un mondo di polvere. Un angelo ammonitore mostra un cammeo che riproduce il volto del sovrano ispanico e imperatore tedesco Carlo V. Sotto il gioiello è significativamente rappresentato un globo, chiaro riferimento all’estensione del dominio asburgico sul quale “non tramontava mai il sole”. E’ già trascorso un secolo dalla morte dell’imperatore: come i teschi disposti sul bordo esterno della mensa e in balia del decadimento, così anche il regno non aveva potuto resistere a lungo. I riferimenti allo scorrere inevitabile del tempo sono tutti presenti: la candela spenta, la clessidra e l’orologio. Così come non mancano i segni della guerra e della ricchezza: una corazza, dei fucili, monete e monili. L’iscrizione Nil omne – tarda contrazione di “nihil omne”, “tutto è niente” -, incisa sul tavolo a fianco della clessidra, suggella il messaggio dell’artista, che dipinse il quadro nella Spagna di Filippo IV, avviata alla rovina economica e alla perdita della sua posizione egemonica dopo la disastrosa guerra con l’Olanda e la conquista dell’indipendenza da parte di Portogallo e Catalogna. Gli indizi di un calo di legittimità delle classi dominanti assumono un valore centrale nel Sogno del cavaliere, eseguito ancora da Pereda.

Un nobiluomo dall’incarnato cereo si è appisolato su una sedia. Il contenuto del suo sogno appare a destra, avvolto nell’oscurità della stanza. Sul tavolo, coperti dalla polvere (che richiama la cenere, ossia la fine di ogni vita umana), i tipici simboli della vanitas: le insegne signorili (corone e tiara), i frammenti di una corazza, un mappamondo, una candela consumata, l’orologio, gli immancabili teschi – uno dei quali è mostrato da una diversa angolazione, così che vi si possa guardare dentro -, gioielli, armi e denari. Futili sono considerati anche libri, spartiti, fiori freschi e una maschera (emblema di Thalia, ovvero del teatro), segni della fugacità dei piaceri. Il tema della vanitas è poi ribadito dalla frase scritta sul cartiglio dispiegato dall’angelo: Aeterne pungit, cito volat et occidit, “Punge per l’eternità, vola veloce ed abbatte ogni cosa”. Contemporaneo di Pereda, il fiammingo Pieter Boel (1622-1674), nato ad Anversa ma attivo a Parigi, è ricordato come il “chef-d’oeuvre du genre” delle nature morte. Lo scenario della Grande natura morta sulla vanità è quello di un dissestato edificio antico (presumibilmente una chiesa), entro i cui locali trova posto un sarcofago, attorniato dagli oggetti-simbolo della vanitas, a cominciare dalla mitra, dalle corone regali e dal globo. In primo piano un piatto dorato, sul quale sono raffigurate, a sbalzo, vicende mitologiche, assolve alla funzione di introdurre e separare spazialmente le insegne del potere temporale e spirituale, raffigurate sopra il sarcofago, e vanitates di rango inferiore, sparpagliate per terra. Così, su una balaustra sono disposti un teschio, un mantello d’ermellino ed un turbante impreziosito da un diadema, mentre sul pavimento si distinguono vari strumenti musicali, un’armatura, una sciabola, delle frecce, una tavolozza, libri e piume. E’ un’opera barocca, dunque non deve suscitare stupore lo sfoggio di sfarzo e opulenza in mezzo al decadimento e al presagio di morte.

Guido Cagnacci, Allegoria della Vanitas e della Penitenza. Il dipinto possiede tutti gli elementi caratteristici delle Vanitas. Da una parte i fragili vegetali, simbolo della transitorietà della giovinezza, dall’altra la candela spenta e il teschio, che indicano l’ineluttabile discesa verso la morte

L’intensità dello sguardo sospeso tra sogno e realtà, esiliato e racchiuso in una dimensione interiore che si dipana attraverso i percorsi della mente, il viso teso in un’espressione di altera superficialità, la torsione del collo, il morbido incarnato roseo, fresco e giovane, che spicca con la forza della sua luminosità su uno sfondo scuro; la levità delle dita della mano destra che sfiorano, più che stringere, lo stelo dei fiori. E il teschio, terribile, e la candela morta. E’ attraverso questi elementi che Guido Cagnacci (1601-1663), nella sua Allegoria della Vanitas e della Penitenza, riesce a rappresentare la caducità della bellezza, condannata a sfiorire nel tempo, e l’inevitabile destino a cui tutti gli uomini, prima o dopo, sono chiamati a rendere conto. Ricordiamo che

Guido Cagnacci, Allegoria della Vanitas e della Penitenza. L’opera è esposta al Mar di Ravenna, fino al 22 giugno, nell’ambito della mostra La cura del bello. Musei, storie, paesaggi. Per Corrado Ricci. Il dipinto possiede tutti gli elementi caratteristici delle Vanitas. Da una parte i fragili vegetali, simbolo della transitorietà della giovinezza, dall’altra la candela spenta e il teschio, che indicano l’ineluttabile discesa verso la morte

L’intensità dello sguardo sospeso tra sogno e realtà, esiliato e racchiuso in una dimensione interiore che si dipana attraverso i percorsi della mente, il viso teso in un’espressione di altera superficialità, la torsione del collo, il morbido incarnato roseo, fresco e giovane, che spicca con la forza della sua luminosità su uno sfondo scuro; la levità delle dita della mano destra che sfiorano, più che stringere, lo stelo dei fiori. E il teschio, terribile, e la candela morta. E’ attraverso questi elementi che Guido Cagnacci (1601-1663), nella sua Allegoria della Vanitas e della Penitenza, riesce a rappresentare la caducità della bellezza, condannata a sfiorire nel tempo, e l’inevitabile destino a cui tutti gli uomini, prima o dopo, sono chiamati a rendere conto. Ricordiamo che il genere della Vanitas ha il suo massimo sviluppo proprio nel XVII secolo e che le figure caratteristiche sono il teschio, il lume senza fiamma, gli strumenti musicali silenziosi (la caducità), l’orologio e la clessidra (lo scorrere inarrestabile del tempo), le bolle di sapone, la flora appassita e la fauna marcescente (la transitorietà dei beni). Eloquenti, allora, divengono i simboli inseriti nell’opera, che deve essere letta da sinistra a destra, come sviluppo tra il presente e il futuro. Quindi, a sinistra: la rosa selvatica, dai petali evanescenti, graziosi a vedersi, ma fragili e pronti a cadere al minimo tocco, limpido riferimento ad una condizione di bellezza, schietta, intensa e transitoria, come la gioventù, concetto espresso con rafforzato vigore dalla presenza del soffione, che può essere disperso anche da un debole alito di vento. Così è la bellezza fisica. Perché mai, si chiede l’artista, cadere nella trappola della vanità, del narcisismo, per l’effimero premio della sensualità? A destra della figura sta l’orrido futuro. La candela spenta da poco- il pedicello ancora fumante – e il teschio invitano alla riflessione.
Ricordiamo che, in associazione, gli elementi simbolici della vanitas che risultano più diffusi nell’arte, sono il teschio, il lume senza fiamma, gli strumenti musicali silenziosi (la caducità), l’orologio e la clessidra (lo scorrere inarrestabile del tempo), le bolle di sapone, la flora appassita e la fauna marcescente (la transitorietà dei beni). Eloquenti, allora, divengono i simboli inseriti nell’opera, che deve essere letta da sinistra a destra, come sviluppo tra il presente e il futuro. Quindi, a sinistra: la rosa selvatica, dai petali evanescenti, graziosi a vedersi, ma fragili e pronti a cadere al minimo tocco, limpido riferimento ad una condizione di bellezza, schietta, intensa e transitoria, come la gioventù, concetto espresso con rafforzato vigore dalla presenza del soffione, che può essere disperso anche da un debole alito di vento. Così è la bellezza fisica. Perché mai, si chiede l’artista, cadere nella trappola della vanità, del narcisismo, per l’effimero premio della sensualità? A destra della figura sta l’orrido futuro. La candela spenta da poco- il pedicello ancora fumante – e il teschio invitano alla riflessione.

David Bailly, Autoritratto con simboli della vanità, 1651

Teschi, clessidre e bolle di sapone: l’iconografia del tempo fugace. Nell’Autoritratto con simboli della vanità di David Bailly (1584-1657), il confine di genere tra natura morta e ritrattistica appare più che mai labile: l’interpretazione della composizione scaturisce dall’indispensabile integrazione di entrambi. I riferimenti alla vanitas sono evidenti: sulla scrivania dell’artista trovano spazio un teschio, simbolo per eccellenza dell’ineluttabilità della morte, una candela spenta, delle monete, allegoria delle attività lucrose e mondane, una clessidra, un orologio da tasca, vari monili e delle rose; in primo piano un cartiglio, su cui si leggono la firma dell’autore e il motto Vanitas vanitatum et omnia vanitas (“Vanità delle vanità, tutto è vanità”). Nella stanza fluttuano bolle di sapone, segno, con la loro brevissima esistenza, della fragilità della condizione umana. A sinistra un ragazzo, che mostra con espressione austera il proprio autoritratto in età senile. Sorprende non poco che Bailly, allorché eseguì l’opera, nel 1651, avesse già sessantasette anni: il piccolo ritratto che il giovanotto ostenta è quello del pittore anziano e si configura come un documento di caducità. Dunque, l’artista raffigura se stesso in due età diverse: poco più che ventenne e quasi settantenne. Passato e presente compenetrano nella tela, si sovrappongono e sostituiscono, ritrattistica e natura morta si completano ed esplicano a vicenda: la prima (il quadro nel quadro) è parte integrante dell’insieme di oggetti posti sul tavolo; la seconda, invece, funge da illuminante attributo al giovane pittore. Finzione (il passato) e realtà (il presente) si confondono: ad un’osservazione superficiale sembra che il giovane Bailly anticipi la propria vita futura, la quale però, nel ritratto ivi tematizzato, appare già vissuta, mentre il ragazzo che nella realtà interna al dipinto sembra “vero” rappresenta una condizione transitoria.

Esiste una duplicità semantica della vanitas; da un lato troviamo dipinti con esortazioni dirette alla sfera privata, attraverso memento iconici che avvertono della necessità di limitare la vita sensuale perchè ogni cosa poi finisce e il cristiano si trova sguarnito, in azioni, pensieri opere – e con tante omissioni – davanti al giudizio eterno; dall’altra la pittura di vanitas ha la funzione di ricordare – in un’epoca di forte verticalizzazioni del potere – che ogni uomo, per quanto egli detenga una posizione preminente sotto il profilo sociale deve essere consapevole, come tutti gli altri fratelli,  che per tutti l’approdo è uguale.  Un contemperare cristiano – nel senso che la morte ci accomuna e che Cristo indica, attraverso la probità, una strada di condivisione fino alle soglie eterne – le divinizzazioni di ogni personaggio in vita.

 

Il potere, da sempre, ha cercato infatti di vivere come se ogni proprio esponente fosse eterno: e ogni azione di prevaricazione, truffa, malversazione, sopraffazione sembra alimentata inconsciamente dall’idea che tutto possa essere dominato e acquistato. Introdurre la consapevolezza del memento mori significava riportare i vertici alla base, invitandoli alla giustizia, alla fratellanza e alla condivisione.  Se in molti casi nella natura morta tout court il trascolorare del tempo è indicato attraverso fiori che appassiscono, frutti sui quali è evidente l’inizio del processo di putrefazione oppure attraverso l’irruzione, nella scena, di topi, serpenti, gatti, cervi volanti ecc, con quadri di bellezza nei quali solo l’occhio attento può rilevare gli indizi di caducità, in altre opere viene utilizzato direttamente il teschio o lo scheletro, messaggio di forte marcatura che rende inequivocabile il proprio contenuto.

Nel bel filmato assisteremo anche a quello che appare uno slittamento semantico: l’accostamento del teschio a belle donne – come in Guido Cagnacci – che sembra, ambiguamente, un invito a considerare la caducità della bellezza, a pensare all’eterno, ma soprattutto induce alla consumazione dell’attimo sensuale. Ciò accade anche in immagini fotografiche ottocentesche nelle quali il nudo e il teschio hanno il potere di far emergere il desiderio erotico nella sua urgenza.  Il termine vanitas, utilizzato in pittura per delineare un genere semantico, deriva dalla frase Vanitas vanitatum et omnia vanitas (“vanità delle vanità, tutto è vanità”) è una locuzione latina. La frase è tratta dalla versione latina del Qohelet (Ecclesiaste), un libro sapienziale della Bibbia ebraica e cristiana – in cui ricorre per due volte (Ecclesiaste 1, 2; 12, 8) -.